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e.mail seguita all'invito di interagire con "rischio economia"

---Messaggio originale----
da: marco minoletti


Scuola, formazione, corsi di Lingua e Cultura italiana: una risorsa o
un problema? (di Marco Minoletti)


In Italia, il problema della scuola non è recente. Per farsene un'idea basta introdursi in un edificio scolastico qualunque! Lo scrittore francese André Gide sosteneva che per cogliere lo spirito di una città si devono visitare il cimitero, i giardini pubblici, il palazzo di giustizia e la biblioteca cittadina. Da noi, per testare il grado di avanzamento del senso civile, etico e culturale della nazione – per poi poterlo comparare con quello degli altri paesi del mondo civilizzato – sono sufficienti la caserma, l'ospedale e la scuola. Senza scomodare Foucault, chiunque abbia avuto a che fare con una di queste strutture sa di cosa stiamo parlando. Di luoghi non soltanto repressivi, ma soprattutto di luoghi atti ad ingenerare nei loro fruitori sensi di colpa. Il senso di colpa per la propria condizione di ammalato; la malattia come vergogna e dipendenza. Il senso di colpa per non essere in grado di pervenire al grado di animalità desiderato dai superiori; la bestialità e l'annullamento di sé come valori. Il senso di colpa per non essere all'altezza di memorizzare la montagna di nozioni che ci vengono imposte; il nozionismo come veicolo del vero sapere. Al di là dell'approccio di tipo psicologizzante per sua natura invisibile all'occhio, per rendersi conto de visu della serietà del problema è sufficiente inquadrarlo dal punto di vista architettonico. Le tre istituzioni in oggetto presentano, infatti, delle sorprendenti analogie anche dal punto di vista formale. Per una strana complicità degli organi preposti alla trasmissione dei dati genetici, pare che da almeno due secoli in nessun altro paese europeo il Dna dei funzionari e degli architetti coinvolti nella costruzione di questi edifici abbia subito un così brusco arresto evolutivo come in Italia. Misteri della genetica! In effetti "nel paese della fantasia" scuole, caserme ed ospedali paiono spesso progettati dalla stessa mano infelice. Una mano priva di sensibilità, gusto estetico, senso dell'intimità, calore umano, empatia. Avete mai visitato una scuola o un ospedale in Germania, Svizzera o Svezia? ... Fermiamoci qui! Non è certo questa l'occasione per disquisire dal punto di vista sociologico e architettonico sulla necessità o meno di dar corso ad un ripensamento critico di queste tre strutture, anche perché vogliamo limitarci alla scuola. Pur tuttavia, questo brevissimo excursus ci è parso doveroso per rendere l'idea della complessità delle problematiche ad esso connesse.
Che l'attuale crisi economico-finanziaria richiedesse delle contromisure è fuori di dubbio, ma da lì al fatto che a farne le spese fosse uno dei settori strategici dai quali dipende il futuro di una nazione ce ne corre. Il destino di una nazione non lo si gioca soprattutto sul terreno della formazione? Non sono forse la scuola, l'università e la ricerca i settori "improduttivi" nei quali una nazione lungimirante e orientata al bene futuro della cosa pubblica dovrebbe investire? È mai possibile che il senso di responsabilità e la capacità di proiettare delle visioni da parte di governanti, politici ed elettori si siano affievoliti al punto da non poter più essere in grado di andare oltre il proprio limitato orizzonte spazio-temporale?
I tagli operati dall'attuale governo italiano nel settore della pubblica istruzione ammontano, euro più euro meno, a 7 miliardi e 800 milioni spalmati nell'arco di tre anni a partire dal 2009. Per il comparto scolastico estero, la cui gestione attualmente è affidata al Ministero degli Affari Esteri, il taglio complessivo è di circa 12 milioni.
Tradotto in costi umani ciò significa una riduzione della forza-lavoro pari a 87 mila docenti e 42 mila dipendenti Ata per l'Italia e al settanta percento degli insegnanti assunti con contratto locale per l'estero. Risultato: la trasformazione della scuola da risorsa in problema!
Il regista di questa strategia è il Ministro dell'economia Giulio Tremonti, le cui idee in merito alla cosa pubblica in generale e all'economia in particolare sono contenute nel saggio La paura e la speranza.
Il saggio merita un po' di attenzione critica per la semplice ragione che il redattore del testo oltre ad essere Ministro dell'economia è anche l'estensore del programma del Popolo delle Libertà. In esso sono contenute, a livello embrionale, le idee guida della politica economica italiana dei prossimi anni. Il libro, che a tratti parrebbe essere stato scritto a quattro mani con un esponente dei no-global, è diviso in due parti. La prima, in cui vengono presi criticamente in esame i costi sociali della globalizzazione, è in parte una rimasticatura di tesi già sostenute in altri scritti del professore-ministro. In essa l'A. riflette sulle debolezze del libero mercato e sulle conseguenze dei processi innescati dalla trasformazione dell'economia planetaria tout court. In un calderone non privo di effetti pirotecnici, ma certamente non supportato da un'adeguata capacità di analisi, vengono cucinati a temperatura troppo elevata i mali della globalizzazione.
Si passa dagli effetti negativi per l'ambiente naturale, per i prezzi che lievitano, per l'uomo troppo consumista, per le inadeguate e disumane condizioni dei lavoratori dei paesi emergenti per poi approdare all'elogio della civiltà contadina prima dell'avvento del libero mercato.
Nella seconda parte del saggio il novello Rousseau sostiene la necessità di un consenso e di un sostegno convinto più ampio da parte del popolo, e ciò per ridare linfa vitale ad alcuni valori cardine della società occidentale quali: ordine, famiglia, federalismo, Dio, identità.
Tremonti, dopo aver dipinto nella prima parte del libro un quadro a tinte fosche, dopo aver ventilato lo spauracchio della imminente catastrofe, dopo aver evocato le forme della paura, si trasforma nella seconda nel demiurgo presuntuoso, dispensatore di speranze e creatore del nuovo ordine europeo.
L'autore individua gli elementi della rifondazione della politica europea non tanto sul piano dell'economia, bensì su quello – per lui ben più insidioso – della filosofia politica, quando afferma la necessità di ritornare alle "radici giudaico-cristiane dell'Europa".
La risposta del filosofo non si è fatta attendere: "Se la salvezza dell'Europa è una questione di potenza, allora la salvezza può farsi avanti solo se ci si allontana dalla tradizione europea, dunque solo se si recidono le radici giudaico-cristiane dell'Europa."[...] "La morale autentica è oggi l'adeguazione alla maggiore potenza, che non può essere quella di Dio, ma è quella della tecnica." (Emanuele Severino, Platone, la Tecnica e il Mondo Globale, "Corriere della sera", 22.03.2008). (1)
Ed inoltre: cosa vuole esprimere Tremonti quando scrive: "occorre montare la fortezza Europa contro l'attacco dell'Asia e contro la tempesta sempre più violenta che sta arrivando dalla globalizzazione e dal mercatismo" ?
Vuole forse "far emergere" il bisogno di protezionismo, tanto caro ai suoi amici della Lega, per fronteggiare l'avanzata delle economie cinese ed indiana che stanno progressivamente mettendo in crisi il primato economico dell'America e l'immobilismo dell'Europa?
Suvvia! Non saranno sicuramente né la sospetta critica del ministro Tremonti alla globalizzazione e al liberismo, né la sua ricetta per una ripresa dei "valori tradizionali" che potranno contrastare l'avanzata dei mercati asiatici ed il progressivo declino di quelli occidentali.
Le speculazioni filosofico-politiche del ministro-scrittore, voltate nella prassi e tradotte in legge, hanno avuto, tra le varie conseguenze, non tanto quella di impedire l'avanzata dei mercati asiatici, quanto quella di contrastare la diffusione della lingua e cultura italiana in Svizzera come nel resto del pianeta. Come si è potuti giungere a tale scempio? Per capirlo è necessario fare alcuni passi indietro nel tempo!
I corsi di lingua e cultura, regolati dalla Legge 153/71, sono stati pensati sia per tutelare e garantire il diritto costituzionale al compimento del ciclo di studi dell'obbligo (licenza media) ai connazionali residenti all'estero, sia per promuovere la diffusione della lingua e della cultura italiana. Le finalità didattico-pedagogiche sono evidenti: ampliamento delle competenze linguistiche, apprendimento della propria cultura d'origine, potenziamento del livello di integrazione sia nel Paese di accoglienza che nel Paese d'origine in caso di rientro. Si tenga infine presente l'importanza dei corsi per lo sviluppo personale degli scolari, soprattutto per quanto attiene la sfera delle emozioni e, non da ultimo come veicolo atto a promuovere una formazione più aperta e tollerante. L'utilità e la validità dei corsi è riconosciuta, non a caso, anche dalle autorità elvetiche preposte al settore.
Nell'introduzione ai Programmi didattici di orientamento del Cantone di Zurigo, nel novembre 2003, è lo stesso Consigliere di Stato Prof. Dr. Ernst Buschor a far notare che "negli ultimi anni si è riconosciuto ai corsi di lingua e cultura un valore sempre crescente ai fini dell'integrazione e del successo scolastico degli alunni di lingua straniera o plurilingui."
Nonostante i gratificanti riconoscimenti da parte svizzera, tra gli addetti ai lavori serpeggia da tempo un certo malessere nei confronti della Legge 153, ormai ritenuta obsoleta e superata dai fatti. Se si prende in esame il contesto socio-culturale di riferimento si scopre che gli italiani residenti in Svizzera tendono progressivamente a radicarsi e sono pervenuti ad un grado di integrazione molto più elevato rispetto a quello raggiunto dai primi migranti. Non parliamo poi degli adolescenti! Le nuove generazioni di scolari, che frequentano i corsi di lingua e cultura, sono nate e cresciute all'estero, parlano con sufficiente competenza le lingue nazionali nonché gli idiomi locali ed hanno pienamente acquisito usi e costumi locali. Per far fronte al mutato scenario, alcuni anni or sono, alcuni enti gestori dei corsi hanno dato coraggiosamente il via ad un processo di trasformazione in fieri sfociato nell'introduzione del progetto di Certificazione dell'italiano come seconda lingua (L2). Parallelamente alcuni parlamentari eletti nella circoscrizione estera presentavano ben sette proposte per riformare la Legge 153/71. Non a caso già durante l'ultimo governo Prodi era emersa la necessità e l'urgenza di rimettere mano alla legge che regola l'insegnamento e la diffusione della lingua e cultura italiana al di là dei confini nazionali. La Riforma Gelmini ha spazzato via anche questi tentativi di riformare una Legge che definire desueta ci pare, ormai, un eufemismo. Se, come ha fatto notare Walter Benjamin nella Metafisica della gioventù, "la riforma della scuola non è solo riforma dei modi di propagazione dei valori, è revisione dei valori stessi", in Italia, la riforma Gelmini ha mortificato anche l'ultimo pseudo-valore che ancora tiene saldata la scuola alla società dei consumi; quello utilitaristico. In un'epoca in cui all'assioma cartesiano del cogito ergo sum si è andato vieppiù sostituendo quello falsamente edonistico messo in onda dalle reti di Mediaset e dei grandi magnati della pace sociale: consumo, dunque sono, in un'epoca in cui la scuola si è gradualmente, ma inesorabilmente trasformata in un'istituzione che riflette specularmente le istanze dell'unico valore su cui poggia la società dello spettacolo, quello della merce, non c'è da stupirsi più di tanto che proprio la scuola, in sintonia col resto della società, non creda più alla potenza dello spirito, della parola, del pensiero, dell'arte, ma solo alla scienza della pubblicità come reale programmatrice degli umani destini, dei sogni, delle aspettative, dei desideri e dunque come regolatrice occulta e occultata dell'iter scolastico dei giovani in età scolare. La scuola da trampolino di lancio e promessa di un futuro professionale facilmente convertibile in moneta sonante si è trasformata in un girone infernale per insegnanti precari a vita e studenti di belle speranze senza futuro, ormai uniti dalla medesima penuria e dallo stesso obiettivo: i fondi per tenere a galla una barca che, dal dopoguerra in poi, non ha conosciuto altro che vortici e mulinelli, correnti spaventose e venti contrari. L'Arca di Noè che doveva traghettare la specie studentesca, il nerbo della futura nazione, verso il paradiso dei consumi in terra, si è trasformata nell'incubo del Titanic che affonda. Non saranno né i grembiulini blu o rosa, né il voto in condotta, né la redistribuzione dei fondi alle università a seconda dei gradi di meritocrazia didattico-aziendale a risparmiare gli studenti dall'assenza di futuro e dal vuoto di prospettive che li attende. E i giovani e i loro docenti queste cose le provano sulla loro pelle! Non a caso sono scesi insieme nelle piazze a prendersi le sprangate dai bravi ragazzi col tricolore. Ragazzi che, a differenza di queste teste calde che contestano, non hanno tempo che per lo studio, le sane amicizie, il tifo nelle curve la domenica, le processioni agli altari della Patria. Oggi "l'onda" lunga della contestazione non schiumeggia più di rabbia risentita contro l'autoritarismo dei padri-edipici da uccidere a tutti i costi, non ha conti da regolare con le mentalità antiquate, non ha nulla da contrapporre alle inadeguate idee politiche dei governanti e dei loro elettori, non si scompone di fronte ai fanatismi religiosi, ma si infrange e si spegne - coscientemente o meno - contro le barriere del tempo, mettendo a nudo i limiti di un'economia reale dominata dalla tecnica e quindi sempre più impaludata nelle sabbie mobili della contraddizione epocale che oscilla tra razionalizzazione da un lato e bisogno di lavorare, dall'altro. Se dunque il postulato della piena occupazione è già da anni messo radicalmente in crisi dall'inarrestabile, ma non illimitata, crescita del livello tecnologico, com'è possibile razionalizzare ulteriormente i fondi necessari alla scuola, alle università e alla ricerca senza causarne il definitivo collasso? Cos'altro volevano dimostrare gli alunni dei corsi di lingua e cultura italiana in Svizzera, quando lo scorso anno, sotto la Casa d'Italia di Berna, gridavano a Mantica "i tagli non li vogliamo" se non l'ira dei futuri esclusi dal mondo del lavoro?
dicembre 2009
NOTE: (1) Onde evitare possibili equivoci occorre precisare che, secondo Severino, economia e tecnica non sono identificabili. La tecnica è lo strumento di cui il capitalismo si serve per perseguire la sua strategia vincente, cioè essa "è la sponda della volontà di potenza vincente". (N.d.R.)